La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre.
- Einstein
La crisi delle dimensioni fisiche, come crisi della misurazione, va di pari passo, come è facile comprendere, con la crisi del determinismo e riguarda, oggi, l’insieme delle rappresentazioni del mondo
- Paul Virilio
“...une même ville regardée de différents côtés paraît tout autre, et est comme multipliée perspectivement”
- G. W. Leibniz

La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre.

- Einstein

La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre.

- Einstein

Dottorando: Simone Di Benedetto, XXVII ciclo

Titolo della tesi: "Vuoti a rendere". Riflessioni sul ruolo dello spazio intermedio nella residenza urbana  romana

Tutor: prof. Paola Gregory

Co-tutor: prof. Rosalba Belibani

 

Partendo dalle profonde modificazioni delle relazioni intercorrenti tra spazio pubblico e spazio privato, con un progressivo prevalere del secondo sul primo, e dalla deflagrazione del pubblico in un’infinità di situazioni minute (C. Bianchetti), la dissertazione di Simone Di Benedetto intende riflettere su quegli spazi aperti intermedi che si confrontano con la residenza urbana per prossimità, dimensione, forma e pratiche sociali. Si tratta di luoghi e tasselli a volte non configurati, altre volte sottratti nel tempo alla leggibilità e agli usi originari o semplicemente dimenticati: "vuoti a rendere" che attendono nuove possibilità per essere abitati, usati, attraversati, diversamente praticati.

Al declino del concetto di pubblico (descritto da H. Arendt e R. Sennett) si sostituisce, dunque, la ricerca di un nuovo spazio collettivo, alla scala residenziale, dal carattere sempre più mobile e dai confini sempre più labili, capace di promuovere nuove e impreviste possibilità di aggregazione, di operare come una trama discreta che sottende, supporta e intensifica nodi adeguati d'interconnessione. "Luoghi del contrappunto, della sincope, della pausa", li definisce Di Benedetto, che, nella sovra-eccitazione nervosa tipica della vita metropolitana, sappiano ritagliare e istituire di nuovo il senso dell'essere-in-comune, ripartendo dalle possibilità originarie del "fare esperienza" condivisa, per innestare le diverse storie private nella sfera pubblica o semplicemente collettiva.

L’obiettivo di tale lavoro non è la ricerca di posizioni definitive o assertorie per indicare auspicabili soluzioni, né la tesi intende confrontarsi con un panorama vasto di riferimento teorico-operativo. Piuttosto si tratta di focalizzare l’attenzione su quegli spazi liminari delnostro habitat quotidiano, la cui riqualificazione – per lungo tempo disattesa – è oggi tornata all’attenzione delle politiche urbane, ai fini di una rigenerazione (sociale ed economica)  dei tessuti esistenti: una rigenerazione che richiede, a volte, piccoli interventi per innescare processi di auto-rinnovamento, ovvero per ricucire o saldare frammenti o filamenti rimasti muti nel tempo.Volendo confrontarsi con spazi “di vicinato” all’interno dei quartieri costruiti nel corso del XX secolo, il dottorando preferisce focalizzare la propria attenzione sulla sua città – Roma – la cui conoscenza, come architetto sul campo e comune abitante, gli consente di tracciare puntuali ricognizioni, venate talvolta da una vera e propria passione discorsiva. Vengono, in tal modo, evidenziati i  i momenti più salienti (in positivo o in negativo) della costruzione dello spazio pubblico residenziale: quello spazio intermedio - tra le case - o spazio dell’in-between o dell’entre-deux che consente, nel proficuo relazionarsi degli edifici e degli abitanti fra loro, così come degli insediamenti rispetto al vacuum dello spazio urbano, di oltrepassare quel limite fisico/psicologico/sociale – talvolta costruito nel tempo, talvolta indotto (se non imposto) dalla stesse politiche di pianificazione urbana – che, nella difesa di un’identità, ha spesso costruito barriere più o meno percettibili alle nostre pratiche di convivenza  quotidiana.

Ripercorrendo brevemente la storia di molti dei tessuti residenziali moderni e contemporanei, tipici dello sviluppo di Roma capitale – dagli spazi “a misura d’uomo” degli isolati residenziali di fine Ottocento-primi Novecento alla deflagrazione dello spazio interstiziale nell’esplosione della palazzina; dalla ricerca di uno spazio intermedio nella stagione dell’INA Casa, adatto alle nuove esigenze degli immigrati, alla sua desertificazione prodotta dai grands ensembles degli anni Settanta-Ottanta, fino alle recenti sperimentazioni sulla porosità dello spazio residenziale e sulla rivalutazione della dimensione ecologico-relazionale degli insediamenti umani, nell’ottica tracciata dal “giardino planetario” di G. Clément – Di Benedetto ci conduce per mano alla scoperta di spazi a volte nascosti (una Roma sparita, si potrebbe dire), altre volte emblematici dell’immaginario collettivo, dimostrando un’attenta conoscenza delle dinamiche costitutive della città e delle sue parti, restituite attraverso un’esperienza diretta, supportata, anche, da precise analisi storico-critiche e archivistiche.

Senza nascondere la sua posizione – più volte ribadita attraverso il riferimento, sempre presente, all’opera teorica e progettuale di Jan Gehl– il dottorando prosegue con l’individuazione di alcune possibili categorie di lettura dello spazio intermedio, in cui diventano centrali, nel rapporto inside/outside, la questione dei limiti, delle soglie, del suolo come palcoscenico urbano.

Attraverso alcuni recenti esempi d'intervento volti alla rigenerazione degli spazi collettivi "fra" le case, la dissertazione individua strategie progettuali ricorrenti – quali la porosità del costruito e la rimodellazione del suolo, l'infilling e il grafting, l'ibridazione morfologica e il "rammendo urbano" – e alcune parole-chiave quali "azione, tattica, innesto" – dal mapping digitale alle Tactical actions –  per "individuare quei processi virtuosi che reinterpretano lo spazio aperto come bene comune".

A chiusura della tesi, alcuni temi d'intervento nella realtà romana si propongono di visualizzare, attraverso concepts metaprogettuali, le riflessioni proposte,  evidenziando l'atteggiamento pragmatico del dottorando nei confronti del progetto, indagato dal punto di vista delle sue capacità di orientare ‘sul campo’ possibili scenari d’intervento.

P. Gregory, Torino, 18 Luglio 2017

 

Dottoranda: Laura Calderoni, XXVII ciclo

Titolo della tesi: L'altra città. Lo spazio pubblico contemporaneo: pratiche sociali di rigenerazione

Tutor: prof. Paola Gregory

 

Gli spazi pubblici  - scrive Laura Calderoni - sono quelli che "hanno assorbito maggiormente gli squilibri e le spinte degli interessi economici e speculativi", subendo un progressivo logoramento della loro originaria identità: il pubblico è arretrato di fronte "all'impossibilità di gestire e dare nuovo impulso ai luoghi del vivere collettivo" e lo spazio pubblico - come luogo relazionale dell'esperienza sociale - mostra la propria fragilità, esponendosi al rischio (annunciato  dagli studi di J. Habermas, H. Arendt, R. Sennett) di un suo irreversibile declino.

L'evaporare del tradizionale concetto di pubblico attorno al quale si sono costruite le forme della città moderna, le metamorfosi intercorse nella relazione fra spazio pubblico e spazio privato con il ri-articolarsi e pluralizzarsi della sfera pubblica, spingono la dottoranda a riformularne lo stesso significato, che, nella "mobilitazione universale" (M. Cacciari) che caratterizza la contemporaneità, dovrà trovare nuovi denominatori e diverse declinazioni. Per questo Calderoni preferisce utilizzare il concetto di "bene comune" che, ibridando fra loro pubblico e privato, delinea l'idea di uno "spazio comune" in cui rintracciare quella "unità nella diversità". Al di là del principio di titolarità, lo spazio comune è infatti luogo di accoglienza della pluralità: "è un valore comune che i singoli possono perseguire solo assieme, nella concordia", rappresentando "il massimo tentativo di un'integrazione sociale basata sul consenso" (N. Matteucci). è dunque attorno a questa idea che si definisce il campo di riflessione della tesi dottorale, orientando la ricerca verso modalità di azione e di intervento in grado di promuovere, nell'accezione di bene comune, il principio dell'essere insieme in una comunità, riconoscendo valore a quegli aspetti di auto-rappresentazione sociale e culturale troppo spesso delegittimati nei processi progettuali tradizionali.

Lo sviluppo di nuove forme associative capaci di diventare soggetti propositivi, l'amplificazione della sfera privata nel dominio del pubblico, la tendenziale “domesticizzazione” del tempo libero, l’assoggettamento delle pratiche progettuali alla logica dell’evento - aperte dunque all'aleatorietà del non-programmato nella produzione di un nuovo tipo di spazio frammentario, mobile, temporaneo - modificano lo stesso scenario e spazio del progetto, che, sebbene "spesso ridotto ai minimi termini, perché i tempi sono compressi e le modalità mutevoli e diversificate", non dovrà tuttavia perdere il suo carattere immaginifico e propulsore, capace di ricostruire una fiducia comune e alimentare una "creatività collettiva".  L'innovazione progettuale sta proprio nel dialogo e nell'integrazione fra codifica e spontaneità degli usi, fra progetto fortemente e debolmente strutturato, fra micro-ambito d'intervento e network proattivo, necessario - scrive Calderoni - per sostenere nel tempo e nello spazio l'azione del soggetto pubblico o l'iniziativa di gruppi più o meno organizzati. In particolare le possibilità offerte dall'implementazione dell'ICT, permettendo il costituirsi di reti di scambio sia a scala locale che globale, consentono il costituirsi di piattaforme collaborative, capaci di influenzare le scelte politiche dei governi e di promuovere nuovi modelli partecipativi di intervento sulla città, caratterizzati - spesso -  da un tipo di progettazione "peer to peer" a descrivere una rete costituita da nodi paritari e non gerarchizzati.

In questa confluenza di locale-globale, nascono alcune delle proposte più interessanti attraversate dalla dissertazione, che, rivolta alla questione - oggi centrale - della rigenerazione urbana, trovano nelle azioni bottom-up gli ambiti progettuali più innovativi, dove sperimentare nuovi modelli di coesione sociale e condivisione gestionale.  

Dal progetto alle pratiche d'uso, la dissertazione attraversa alcune narrazioni urbane in cui diventano centrali, nello sviluppo di comunità polisemiche, "l'esperienza del quotidiano", "le pratiche sovversive e il gioco", "l'autocostruzione" e la "temporaneità": altrettante tattiche contemporanee in cui, come chiarisce D. Innerarity, possa svilupparsi "tutta la cooperazione possibile in mezzo alla minima gerarchia necessaria".

La tesi dottorale si conclude con tre progetti di rigenerazione urbana, portati avanti dalla dottoranda nell'ambito dell'APS Open City Roma, di cui fa parte. Si tratta di tre spazi pubblici, di cui due temporanei,  realizzati a Roma nel periodo 2015-2016, a testimonianza di un interesse che dal campo teorico si è sviluppato, integrato e tradotto in quello operativo con ricadute ricorsive  sulla stessa elaborazione della tesi dottorale. Un processo continuo di feed-back ha infatti ri-orientato nel tempo ladissertazione, che con un work-in-progress ha, a sua volta, indirizzato l'azione progettuale, nella ricerca di una pratica ri-pensata come azione condivisa e permanente. I tre progetti presentati  -  La bella addormentata nel quartiere Decima a Roma, nell'ambito dell'iniziativa "Abitare Per" promossa dalla Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane del MiBACT, Vita di corte e Di Ponte in bianco, realizzazioni effimere nate nell'ambito dell'evento "Aperti per ferie" organizzato dalla stessa Associazione Open City in occasione delle due edizioni romane 2015 e 2016 dell'Estate Romana -  costituiscono nel loro insieme, pur nei diversi contesti (fisici, operativi, gestionali), altrettanti esempi di possibili iter d'intervento rigenerativo, di cui la pratica partecipativa e inclusiva costituisce l'incipit per un processo mai concluso ed esaustivo.  "Il progetto - scrive, infatti, Calderoni - non termina con la sua realizzazione, ma incentiva l'instaurarsi di una processualità replicabile con azioni future",  aprendo alla possibilità "di costruire un network tra i diversi attori" che, dall'azione bottom-up, procede dalla scala locale a quella globale . 

La tesi dottorale presenta dunque interessanti risvolti operativi, sostituendo alla modellistica dell’exemplum la processualità dell’eventum, di cui traccia – nei diversi casi analizzati, come nei tre progetti presentati a chiusura della dissertazione  – i diversi stadi di elaborazione: dalle politiche (comunitarie o meno) ai canali di finanziamento, dalle scelte progettuali alla realizzazione, sino alla considerazione delle fasi successive, valutabili in termine di “effetti” e “conseguenze” sugli abitanti, sui luoghi, sui media, sui network. L'esito finale è in tutti i casi  la riconquista dello spazio pubblico, nell'attivazione di quella condivisione sociale "non istituita per diritto di cittadinanza, ma realizzata attraverso l'agire comune". Un lavorare quindi sul "bene comune" che orienta l'appartenere verso il bisogno dell'altro. Di qui anche il titolo della tesi - L'altra città - che postula l'altruità come esigenza di una rappresentazione collettiva, intesa non come espressione di una totalità, bensì come un "esistere in comunità", all'interno della quale, soltanto, possono confrontarsi e liberarsi le diverse culture e singolarità.  

Il lavoro di Calderoni si sviluppa con riferimenti ampi e specifici in grado di offrire un contributo efficace all'attuale dibattito sulle principali questioni che la rigenerazione urbana pone. Dall'esigenza di nuove forme di  condivisione dello spazio pubblico ai problemi di equità sociale, dalla necessaria interculturalità del progetto alle risposte contestuali di operatività e governance - per ricordarne soltanto alcune - la tesi propone, all'interno di un'ampia, diffusa e attualissima letteratura, pertinenti chiavi di lettura e progetto in cui la communitas può ritrovare una propria possibilità di esistere: è questa l'altra città, dove l'appartenenza non è data, ma ogni volta da riconquistare; "non un avere", ma al contrario - come chiarisce R. Esposito - "un dono-da-dare".

Roma, 02 Novembre 2016

 

Dottoranda Alessia Vitali XXV ciclo
Titolo della tesi: Archeofagia contemporanea_Assimilazione, incorporazione e rigenerazione della città archeologica
Relatori: Giorgio Di Giorgio e Paola Gregory
 
 
Alessia Vitali dispiega la sua tesi dottorale lungo il tema del rapporto tra i lasciti del passato e il fare architettura.
Tema che circoscrive al rapporto tra Archeologia e Architettura. Si inoltra quindi in un terreno complesso dove due discipline si confrontano ciascuna con il proprio statuto o meglio con i propri statuti.
Evitando il rischio e la presunzione di definire un iper-statuto dell’architettura, dell’archeologia e del restauro, Alessia Vitali segue un percorso dal basso e certamente tendenziale.
La descrizione e l’analisi del rapporto tra architettura e passato prende le mosse da realtà che appaiono inconciliabili: la Berlino di Oswald Mathias Ungers (1977), la New York di Rem Koolhaas (1978), la città archeologica di Roma di C. Aymonino (1976-85). Quali sono i fili sottesi a questi diversi esperimenti, il cui fattore unificante sembra essere soltanto quello temporale? La tesi si dispiega come un viaggio che lungo il suo percorso intende riannodare (almeno in parte) refi che appaiono disgiunti. 
Per questo Alessi Vitali - una volta definiti i caratteri salienti di quegli esperimenti - si inoltra nell'analisi della città di Roma, campo privilegiato - ed emblematico - di un confronto mai pacificato fra antico e nuovo,  dove l'antico è innanzitutto lo strato archeologico della città  - lo strato ora "visitato" e dunque consacrato, ora "schivato" (secondo le definizioni della dottoranda) - che affiora nella metropoli contemporanea. Qui, dopo un breve excursus sulla recente programmazione urbanistica della "città storica" e in particolare archeologica, carente - si ravvisa - di una sufficiente articolazione semantica, la tesi sembra virare sul carattere fruitivo della città archeologica: un carattere di tipo ricettivo-turistico-culturale che, avendo perso la sua utilitas si è trasformata "da contenitore a contenuto". “Museificare - scrive la Vitali -  sembra essere infatti l’unica risposta alla conservazione e all’apprezzamento delle preesistenze archeologiche", ma il processo di museificazione produce con esse uno scarto e uno iato difficilmente ricomponibile: "la vita contemporanea le lambisce solamente, le guarda da lontano ma non le vive", trasformando spesso le loro "presenze fisiche" in altrettante "assenze fruitive".  
La dialettica fra presenza e assenza, ancora parzialmente esistente nella "città archeologica visitata", scompare nella "città archeologica schivata",  la città disseppellita e dimenticata, che si frappone come "uno scoglio urbano" al fluire della città contemporanea. E' qui, in particolare, che il progetto architettonico potrebbe - dovrebbe - intervenire, per restituire a quelle laconiche assenze una nuova vitalità e presenza, alimentata da un rinnovato interscambio con la città attuale, dove questa – come scrivevano Ungers e Aymonino - esibisce sempre "contraddizione e conflittualità" ovvero "accumulo" come possibilità del superfluo. Stratificare, addensare, incorporare e persino "cannibalizzare" - riprendendo Koolhaas - significa per la Vitali ricercare "un nuovo layer contemporaneo, una rete che unisce nodi incorporanti", dove questi ultimi "corrisponderanno all'intersezione o ai punti di tangenza sia fisici che programmatici della città archeologica con la città contemporanea".
Il rapporto fra antico e nuovo è dunque innanzitutto da ricercarsi alla scala urbana, dove l'assimilazione - nella provocatoria definizione di "archeofagia" - testimonierebbe "un'incorporazione che dà corpo all'altro", una "uni-dualità" senza egemonie.  
 
A questo punto, il nodo del rapporto con il passato sembra complicarsi: la ricerca si sposta sull’indagine dei singoli reperti, per comprendere il valore dei lasciti.  Valore storico e valore estetico diventano, così, le due principali istanze attraverso cui rileggere alcune delle teorie e delle pratiche del restauro più consolidate. Dimostrando una discreta conoscenza dei riferimenti dottrinari, Alessia Vitali ne ripercorre brevemente alcuni momenti principali, richiamando, accanto al "restauro scientifico" proposto da Camillo Boito e Gustavo Giovannoni fondato sul valore testimoniale (quindi materico) dell'opera, sia il "restauro critico" basato, come scriveva Cesare Brandi (1963), sul "riconoscimento dell'opera d'arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità storica ed estetica, in vista di una sua trasmissione al futuro”, sia il "restauro critico e creativo" che, promosso da Roberto Pane (1944) in alcune situazioni di particolare degrado e mutilazione dell'opera (a causa innanzitutto delle distruzioni belliche), rappresenta una  possibilità d'intervento per “attribuire una forma estetica” – come ricordava, richiamando Pane, Renato Bonelli (1953) – “al monumento che ne è ormai privo, realizzando cioè un’opera tale che riesca insieme antica e moderna”. Un’opera di restauro, dunque, che è valutazione critica e creazione artistica insieme, che “non ammette regole fisse e norme estrinseche, ma solo l’aderenza alla concreta singolarità di ogni caso” (Bonelli, 1958 ) ovvero, come chiarisce Giovanni Carbonara (1976), che  sia in grado di ricostituire l'intero ricucendo i frammenti in una "rispettosa unità figurativa" per renderli "parti leggibili di un discorso critico e di un'espressione formale nuova, attuale e autentica".
E’ dunque in riferimento al singolo caso e al grado di conservazione presente, che la Vitali articola il patrimonio archeologico in tre possibili stadi: "l'intero" ovvero il monumento che possiede ancora l’unità figurativa dell’opera originale; la “parte" o frammento, intesa secondo la Gestaltpsychologie, come “una suddivisione che si adatta alla forma del tutto”, “forma auto-sistemica” – la definisce Alessia Vitali - in cui è ancora presente un riferimento all’intero”; il “pezzo" o lacerto la cui condizione arbitraria di sezione ne esclude, a differenza delle altre due, qualsiasi valore estetico. E’ in queste due ultime categorie, che la Vitali ravvisa la possibilità di un progetto: un progetto che diviene tendenzialmente di museificazione per la “parte” e di integrazione per il “pezzo” dove, nel rispetto del suo valore testimoniale, si può aprire la possibilità di uno sguardo critico e creativo che ne tenti una nuova ri-vitalizzazione, una integrazione in grado di ri-attualizzare un valore artistico ormai perduto.  
In questa tripartizione (evidentemente tendenziosa e non sempre chiaramente delimitabile ed esplicita) Alessia Vitali introduce con acume una “trans-categoria”: la “rovina”, tema caro al pittoresco inglese che giunge sino a noi con rinnovata attualità. La rovina – rappresentazione dello scambio continuo fra natura e artificio,  compenetrazione fra il tempo della natura e la storia dell’uomo – lascia spazio all’immaginazione, rendendo pericolosa qualsiasi idea di restauro (tradizionalmente inteso) che rischierebbe di annullare – sottolinea Marc Augé – la temporalità dell’opera, lo scarto “fra un tempo passato, scomparso, e una percezione attuale, incompleta”. La rovina, espressione di “un tempo puro”, costituisce allora un possibile orizzonte di senso del progetto architettonico contemporaneo che, intervenendo sull’antico, dovrà lasciare spazio alla fantasia, a quell’imago che rende vivida la presenza di un tempo lontano, attualizzandola nell’esperienza.
Ma la rovina, ci ricorda la Vitali, non è solo rivelazione estetica di un patrimonio culturale. Essa è anche espressione concreta di un valore economico: una risorsa economica, che idee quali quelle di brand e branding, competitive advantage, insieme a creative class e soft power (temi volutamente provocatori nello specifico settore d'indagine) potrebbero  coadiuvare a valorizzare.         
Appartenendo appieno al suo tempo, Alessia Vitali è lontana da visioni ideologiche e, immedesimandosi nel fruitore-consumatore, analizza le ricadute economiche (marchio, comunicazione, pubblicità) dei lasciti archeologici. Si apre così un altro campo indagine dove monumenti, frammenti, resti archeologici e rovine diventano in quanto "beni culturali" anche beni di consumo. 
Immessi - come nodi - in una rete virtuale e attuale, sia economica che sociale, i siti archeologici possono così ri-articolarsi secondo nuove mappe e territori strategici che, traendo alimento dalla connessione globale, ne ridisegnino anche il ruolo locale. "La conoscenza e la valutazione della nuova economia e dei nuovi assetti sociali devono [dunque] - secondo la Vitali - essere parte delle pratiche di ri-pensamento della città contemporanea", non contrapposta ma complementare e dialogica con i lasciti archeologici, sempre più potenziali attrattori di uno sviluppo economico-sociale-culturale che è locale e globale insieme. In questo "sistema" di valorizzazione, che risponde a una geo-politica economica capace di mediare fra esigenze di radicamento e universalizzazione, fra istanze di conservazione e innovazione, trova spazio l'intervento contemporaneo sull'antico (per la fruizione e la rifunzionalizzazione, per la valorizzazione culturale ed economica, per la comprensione storica della città, del territorio, ecc.) in una assimilazione che, negli esempi analizzati (Biblioteca civica di Bologna, Museo Kolumba a Colonia, Piazza a Motta di Livenza, Tempio-Duomo di Pozzuoli) appare "senza egemonie, in un'incorporazione - come scriveva De Andrade - che dà nuovo corpo all'Altro". 
Attraverso questi progetti esemplificativi, Alessia Vitali ritrova anche la misura e la distanza entro cui osservare le preesistenze (archeologiche e non), condizione e operazione imprescindibile per la valutazione di ogni tipo di "investimento" che può riguardare scale di approccio e sistematizzazione diverse: dall'architettura alla città, dal paesaggio sino al globo terrestre. 
 
Infine una notazione sulla scrittura della dissertazione: il modello letterario è certamente il pamphlet, che ben si adatta a denunciare l’acceso conservatorismo del nostro paese in materia di beni archeologici e che si traduce, molto spesso, in un immobilismo paralizzante.
 
Roma, 24 Ottobre 2013
 
 

Dottoranda: Giada Domenici

Titolo della tesi: Nella soglia. Attraversamenti fra architettura e filosofia.

Relatori: Paola Gregory, Franco Purini

 

Architettura e filosofia hanno avuto nel tempo diverse occasioni di dialogo e di confronto, producendo a volte traslitterazioni (trasmissioni-traduzioni-tradimenti) più o meno diretti, altre un tessuto di riferimenti che hanno inciso profondamente sulla disciplina architettonica, tracciando proprio nella soglia “pensieri produttivi seppur ancor confusi, quasi visioni”.                       

La tesi di Giada Domenici intende indagare il complesso intreccio che, spesso sub limen, si è sviluppato fra alcuni dei massimi rappresentanti della cultura architettonica e filosofica italiana nel corso del’900, aprendo un un campo di studi ancora non troppo indagato, che pone al proprio centro un “fare che è un pensare e un pensare che è azione”, secondo un circolo ermeneutico che, pur ribadendo la specificità dell’operare architettonico, non ritiene il pensiero filosofico “spiegazione eteronoma”, piuttosto sfondo da cui emerge la dimensione teorica-operativa del progetto, in un dialogo inesauribile fra l’espressione poetica dell’architetto e i movimenti di pensiero propri di una particolare epoca storica.

All’interno di questa dialogica, che per la dottoranda costituisce una questione necessaria allo sviluppo stesso del progetto, si dipana un filo  conduttore sotteso che attraversa l’intera dissertazione: l’auspicio e la consapevolezza di una identificazione fra architettura e pratica etica, riassumibile in “una responsabilità verso il presente e verso l’altro, ma soprattutto verso un futuro arduo da delineare e che sfugge a demarcazioni certe per statuto”. Partendo dall’ipotesi che “il vero sapere è in realtà un saper fare e il vero saper fare è saper fare il bene” (P. Hadot), la tesi individua, fra i tanti possibili confronti, quattro coppie di architetto/filosofo, cui corrispondono altrettanti percorsi di approfondimento che, rimandando a specifiche narrazioni tematiche e temporali, costituiscono la trama su cui tessere e catalizzare riflessioni puntuali. 

Si sviluppano così i quattro capitoli centrali della dissertazione, dedicati ciascuno a una delle quattro coppie individuate:

-        Marcello Piacentini e Giovanni Gentile, cui corrisponde, nella summa progettuale e teorica della   Città Universitaria di Roma e dell’Enciclopedia della cultura italiana, una ricerca di unità e totalità che è richiesta e ricerca di appartenenza e identità, nella prospettiva di quello “Stato Etico” inteso come espressione storica di un’immanenza dei caratteri universali dello Spirito ;

-        Ernesto Nathan Rogers ed Enzo Paci,  che, nel confronto diretto dei due protagonisti dalle pagine di “Casabella continuità” e di “aut aut”, sviluppano quel rinnovato concetto di modernità quale espressione intrinsecamente relazionale di ogni pensiero,  “sempre storico, storicizzato, dialettico”: verità storica e relativa, dunque, inserita in una prospettiva di esperienza e relazione;

-        Aldo Rossi e Antonio Gramsci, cui si associa, nella ricerca di una razionalità declinata in autonomia di linguaggio, un “indirizzo sociale prestabilito” considerato come “libertà”  operante contro l’individualismo e, contestualmente, manifestazione di un realismo storico, direttamente ancorato alle condizioni materiali in cui si opera, nell’ottica di un processo-progresso in cui la cultura non è separabile dalla politica e dalla società;

-        Paolo Portoghesi e Gianni Vattimo, che, attraverso la “Via Novissima” e il “pensiero debole” rappresentano il risvolto italiano del postmodernismo, con l’assunzione dell’ermeneutica a pratica speculativa e la conseguente apertura al pluralismo semantico declinato nella molteplicità delle storicità (individuali e collettive), dei localismi, e dunque dei linguaggi, in cui dovrà esprimersi quel processo di “rammemorazione” che non è mai appropriante, bensì implicitamente relativo, poiché legato alla triade “comprensione-interpretazione-discorso”.

 

I percorsi così delineati non solo ricostruiscono  attente perigrinazioni fra i testi per restituire il confronto diretto o “l’aleggiare di pensieri comuni”, ma orientano  la riflessione architettonica verso una proiezione a-venire.  Nella soglia fra architettura e filosofia, la dottoranda individua infatti, attraverso i principali temi-percorsi esposti, una possibile mappa dii riferimenti, tramite la quale ricostruire un possibile orizzonte significativo del progetto contemporaneo. 

L’appartenenza come ricerca di identità o meglio di identificazione come “movimento” sempre aperto che partendo dall’altro  sappia riconoscere le proprie specificità; il relazionismo come capacità di intessere con le preesistenze un dialogo innovativo “inventando”, come fece Rogers, la torre più moderna dell’epoca, ma anche come relazione fra saperi diversi, più o meno contigui, immersi nel divenire storico di un processo; il linguaggio come sistema strutturato e quindi trasmissibile e comunicativo di segni, da recuperare, però, all’interno di una dimensione fenomenologica dell’architettura che la restituisca anche come “corpo” reale”, “con tutti gli accidenti, il caos e la contingenza che a questo segue”; infine le polifonie stridenti del postmodernismo, interpretabili come palinsesti di “tracce trasmesse-gettate che il ‘genius loci’ accoglie e alle quali porgiamo il nostro ascolto”: questi gli argomenti principali che emergono nella tesi, quelli ai quali la dottoranda affida le ultime – ma mai ultimative – riflessioni che, sempre nell’esercizio del dubbio (come chiarito più volte), possano orientare verso una nuova auspicabile “responsabilità per l’avvenire” (H. Jonas)  in un “equilibrio fra libertà e disciplina”, fra attenzione alle condizioni presenti, riflessi del passato e proiezioni sul futuro. È proprio nel “faticoso procedere” del metodo di lavoro che l’operare architettonico può divenire esercizio quotidiano di un’etica della responsabilità, capace di farsi carico – oltre le proprie intenzioni – delle conseguenze che il progetto contempla, nella “predisposizione” di un fututo non più considerato quale “luogo del compimento”, ma come necessario e “utile attivatore di speranza continua”.

La tesi di Giada Domenici si sviluppa con un ampio respiro tematico e concettuale, avvalendosi di una conoscenza approfondita degli argomenti trattati, di cui è manifestazione l’ampio lavoro bibliografico, documentale e archivistico richiamato lungo l’intera  dissertazione.  Pur affrontando tematiche complesse, la scrittura appare puntuale, precisa e scorrevole, fornendo efficaci e innovativi riscontri critici “nella soglia” attraversata e pertinenti chiavi di lettura per un’architettura a-venire, di cui – come scrive – ricerca “possibili approdi, ma non mete” sulle quali riflettere. Coniugando un’elevata capacità discorsiva con una  personale visione dell’architettura nel dibattito attuale, la dissertazione dimostra un’eccellente grado di maturità, aprendo, anche, a possibili itinerari di approfondimento futuro.  

P. Gregory, Torino, 14 Gennaio 2017

 

Allegati:
FileDescrizione
Scarica questo file (Domenici_ABSTRACT.pdf)G. Domenici, Abstract 

Dottoranda: Ilaria Cotrufo, XXV ciclo

Titolo della tesi: Co-abitare la differenza. Il perturbante nello spazio pubblico aperto della contemporaneità

Tutor: prof. Paola Gregory

Co-tutor: prof. Alessandra De Coro

 

Ilaria Cotrufo sviluppa la sua tesi dottorale, incentrata sullo spazio pubblico aperto contemporaneo, attraverso il ricorso a una categoria psicanalitica  e filosofica - quella del "perturbante" - per ripercorrere le ragioni, nonché l'esegesi, di alcune sperimentazioni recenti, in cui subentrano dispositivi progettuali in grado di sconvolgere forme identitarie acquisite e assetti consolidati, per accogliere con una "rottura dell'essenza"  la convocazione ineludibile che proviene dall'alterità.
Il perturbante - chiarisce la Cotrufo - è infatti ciò che mette in crisi il soggetto (individuale o collettivo), perché mette in discussione la stessa possibilità di definire l'identità escludendo la diversità e, tuttavia, l'esperienza dello straniamento, della destabilizzazione, del decentramento da esso indotto, potrebbe rappresentare un'opportunità, un orientamento per laricomposizione di una nuova "identità problematica" attuata attraverso un processo di "individuazione" (nel senso attribuito da Carl G. Jung) capace di includere l'alterità.
E' questa la tesi che la dottoranda tenterà di dimostrare lungo la sua dissertazione, con riferimenti sia alla storia dell’architettura e dell’urbanistica, sia a quella del pensiero psicoanalitico, filosofico e sociale che, in diversi casi, appaiono puntuali e inediti nel nostro campo disciplinare.
Muovendo dalla crisi dell'odierno spazio pubblico aperto, legato all'inarrestabile declino della sfera pubblica come si evince dagli approfonditi studi di H. Arendt e R. Sennett ripresi dalla Cotrufo, la tesi, dopo aver individuato l'esigenza di ridefinire i tradizionali ambiti dello "spazio domestico" e dello "spazio pubblico" oggi sempre più tesi a riversarsi l'uno nell'altro, arriva a sottolineare l'importanza dell'inconscio nella riformulazione dei nuovi luoghi della co-abitazione. Qui "il ritorno del rimosso" di matrice freudiana, proprio dell'inconscio individuale, e gli "archetipi dell’inconscio collettivo" di matrice junghiana potrebbero giocare un ruolo fondamentale di "autoregolazione dell'apparato psichico" (Jung) in un'integrazione necessaria dell'orientamento cosciente, al fine di evitare l'insorgere di nevrosi dovute a quel conflitto latente - e mai sanato - fra contenuti consci, tradizionalmente propri della sfera pubblica, e contenuti inconsci, propri di quella  privata.  Traslato nel campo dell'architettura e in particolare del progetto degli spazi pubblici aperti – di cui la dissertazione ripercorre sinteticamente alcuni momenti particolarmente significativi della storia - questa convivenza potrebbe sostituire al paradosso dello "isolamento in piena visibilità altrui", caratteristica degli spazi del moderno, un nuovo territorio di condivisione: quello spazio in-fra in cui si traduce la possibilità di un diverso equilibrio instabile fra l'Io e l'Altro, fra conscio e inconscio, fra heimlich e unheimlich, dove in luogo di un'opposizione fra identità pre-costituite, stabili e chiuse, si produce un terreno labile in grado di accogliere un’interferenza originaria che sempre precede la risposta singolare all'appello dell'altrui.

L'analisi del perturbante diviene così la chiave di lettura per comprendere l'apertura all’Altro, dove questo, nel fondamentale testo del 1919 di  S. Freud, viene declinato nel complesso intreccio che lega insieme il familiare e l'estraneo, il comune e l'insolito, il rassicurante e lo spaventoso. Come chiarisce la Cotrufo, l'ambiguità dello stesso concetto di unheimlich non consente di definire limiti chiari, trattandosi piuttosto, come rivela l'analisi semantica del termine, di un nucleo continuamente sfumato e fluttuante, in cui lo strano parallelismo tra familiarità e nascondimento rivela la possibilità di una sua modificazione, dell'improvviso tramutarsi nel suo contrario.
Accompagnato da analisi puntuali, molte delle quali mutuate dall'interpretazione datane da J. Lacan, la dottoranda  evidenzia alcuni aspetti specifici del perturbante, traslati poi nella dettagliata interpretazione degli esempi di spazio pubblico selezionati: dallo "sguardo oltre" come "entità autonoma capace di riflettersi in un’immagine speculare" che diviene espressione di una dualità inquietante - sottolineata nell'idea lacaniana di uno "spazio rovesciato" e di un'anarchia della visione -, al tema del "doppio e della ripetizione" cui si lega nell'unheimlich il pensiero di una riemersione legata a una presenza latente, un ritorno che è insieme “conservazione e distruttività”, “irrigidimento e disgregazione” in un enigmatico oscillare tra le pulsioni di vita e quelle di morte; dal "ritorno del rimosso", nucleo centrale del saggio  freudiano, espressione dell'angoscia profonda di una mancanza - effetto di un'infantile (se non primordiale) rimozione e vertigine di una interiorità a lungo sepolta che d'improvviso si svela -, al rapporto fra "realtà e finzione - inanimato e animato", il cui labile confine costituisce un altro ambito di insorgenza del perturbante, sfaldando certezze e demarcazioni che pensavamo stabilite per sempre.
La lunga esegesi del testo freudiano si chiude con il tema del "silenzio, la solitudine, l'oscurità", dove la mancanza della luce, determinando una condizione di cecità, produce di nuovo la perdita di qualsiasi  certezza, facendocadereil soggetto oltre la propria dimensione (conscia) abituale.

Ma la Cotrufo non si limita all'analisi del Das Unheimliche freudiano, la cui traslazione architettonica era già stata proposta da A. Vidler (1992) secondo una linea interpretativa prevalentemente orientata al decostruttivismo, inteso nei termini di una "frammentazione che rifiuta l'incarnazione tradizionale della proiezione antropomorfa in una forma costruita". Al contrario, una volta iniziato il lungo viaggio nei territori liminari della psicoanalisi e della filosofia, la tesi rilegge, confrontandoli fra loro, altre possibili declinazioni del perturbante, che traggono forza dalle articolazioni tematiche precedenti.
All'interpretazione freudiana si affianca, così, quella heideggeriana che, traducendo attraverso l'unheimlich la complessità del termine greco deinon, intende sottolinearne tre principali sfere semantiche, tutte caratterizzate da un'ontologica dualità: ciò che "desta terrore", ma anche "venerabile timore"; ciò che è smisurato, ma anche capace di "sovrastare per la sua eccellenza"; ciò che è insolito, ma anche immenso, nel senso che eccede l'abituale. Una triade di significati simili a quelli che R. Otto, nel suo famoso testo "Il Sacro" (1917), sintetizzava attraverso il neologismo del numinoso a esprimere “lo scompenso soggettivo di fronte a qualcosa di ‘Esterno’ e di solenne, che nella sua incommensurabilità atterrisce”: il mysterium  tremendum, "la presenza invisibile, maestosa e solenne che affascina e terrorizza".Considerati entrambi come altre possibili declinazioni del perturbante (di cui quella del numinoso del tutto nuova nel nostro ambito disciplinare), la dottoranda ne sottolinea anche le differenze, evidenziando come all'assimilazione estetica del sublime operata da Otto, si contrapponga il confronto-scontro tra heimlich-unheimlich di M. Heidegger, in cui alla casa (heim), formalizzazione possibile della "Quadratura" (l'unità originaria di terra, cielo, mortali e divini) si oppone, in un dissidio irrisolto,  l'unheimlich, la cui incursione improvvisa e impetuosa nespezza la stabilità, l'armonia e la bellezza, introducendo il non-familiare (ovvero la pulsione di distruzione) nel familiare (la pulsione di protezione).
Troppo lungo sarebbe, in questa sede, entrare nell'articolato pensiero del filosofo tedesco, di cui la Cotrufo  ne ripercorre, con indagine minuziosa, alcuni assunti salienti: ciò che emerge è la complessità di un concetto che sembra rivestire un carattere molteplice e multiforme, "più volte piegato" e, dunque, intrecciato e celato. è questa polivalenza ambigua e irrisolta a catturare altre due interpretazioni cui la dottoranda ricorre, evidenziandone l’influenza sulla riflessione architettonica contemporanea.  
Si tratta del tema derridiano dello hantise e della différance, della "disgiunzione del presente" e dello sdoppiamento,  che porta il tema della co-implicazione e dunque della possibile co-abitazione. Questo "raddoppiamento  è una sorta di eco, il ripresentarsi in un altro luogo dello stesso, di un'alterità che non si lascia racchiudere in un'identità". è la questione centrale della differenza e della discontinuità che attraversa tutto il pensiero della decostruzione: questione che ritorna, attraverso i concetti del "Fuori" e della "esperienza del limite" nelle "eterotopie" di M. Foucault. Questi “spazi assolutamente altri”, eterogenei e contraddittori, “inquietano – scrive Foucault – perché minano segretamente il linguaggio, […] perché devastano anzi tempo la sintassi” inducendoci, ricorda la Cotrufo, a “ricostruire, a posteriori e in maniera contingente, la relazione eventuale e le sue condizioni”, a ridare, nell’esplosione dei frammenti, senso nuovo alle cose.

Si tratta – prosegue la dottoranda – di ricongiungersi con una naturalità perduta, dove la natura riaffiora nella sostanza di un caos originario, in cui le opposizioni si fondano senza con-fondersi, mantenendo l’alterità in una “differenza assoluta”, in una “tensione irrisolta che fa, di questi spazi, luoghi di una perenne resistenza” a qualsiasi comprensione logico-formale.

E' questa, senza dubbio, la chiave di lettura latente che attraversa l'intera dissertazione e che sembra emergere con forza negli spazi pubblici più riusciti esaminati dalla dottoranda. Il carattere perturbante non sempre , infatti, riesce a produrre quella tensione-riconciliazione auspicata con l'alterità: nelle sue ambigue pieghe e possibili manifestazioni, la presenza di aspetti perturbanti - quali ad es. la dismisura, il doppio o la ripetizione (dispositivi euristici presenti in molti progetti) - può anche generare spazi alienanti che non  consentono alcuna esperienza di condivisione, né di identificazione.
E' il caso emblematico della Défense a Parigi, su cui la tesi continuamente ritorna in una sorta di "coazione a ripetere", nella volontà di sottolinearne il carattere unheimlich, si, ma nel senso negativo del termine: un carattere nel quale è, innanzitutto, l'enorme fuori scala (la sua Bigness) a impedire qualsiasi relazione tra le parti, qualsiasi dialogo fra le persone che, attraversandolo, non riescono a viverlo, né a farne parte.
Diversamente, gli altri itinerari proposti dalla Cotrufo sembrano cogliere l'opportunità, in rapporto al programma (simbolico e funzionale) e secondo registri compositivi  diversi, di spingersi verso quel "regno dell'oltre" che continuamente produce e accoglie la diversità, infrangendo i confini tra fuori e dentro, tra luce e ombra, tra terra e cielo: ora attraverso contraddizioni manifeste, ora alterità latenti, ora tensioni dinamiche e sfocate capaci di far co-abitare la differenza. Le lunghe passeggiate presentate dalla dottoranda attraverso gli spazi de La Villette a Parigi di B. Tschumi, del Parco Diagonal Mar a Barcellona di EMBT, della High Line a New York di Diller e Scofidio + Renfro, con J. Corner/Field Operations, insieme alle riflessioni di V. Acconci sullo spazio pubblico, emblematizzate dal Queens College a New York, e ai due esempi paradigmatici del perturbante freudiano, rappresentati dal Memoriale a Berlino di P. Eisenman

e dal Ground Zero a New York di D.Libeskind, sovrappongono così ai registri compositivi/de compositivi appassionate descrizioni delle sensazioni-emozioni suscitate, facendo collidere, collassare ed esplodere le due sfere del conscio e dell’inconscio, continuamente scambiate e trans-codificate le une nelle altre. Senza sottrarsi al rischio di manifestare il pathos personale, gli itinerari proposti, in gran parte oggetto di esperienza diretta, sembrano sottolineare lo sradicamento necessario, che, decentrando la nostra identità, solo può avviare quel processo di condivisione, co-abitazione che lo spazio pubblico richiede.   

"Senza identità - sottolinea la dottoranda nella premessa alla dissertazione - non vi è accomunamento; ma senza differenze, l’identità stessa si mostra muta e in se stessa indifferente. Potrebbe forse essere proprio l’angoscia o il riverbero dubbioso del perturbante un motivo di riflessione per misurare il confronto con l’alterità", elaborando il "lutto" necessario che prelude alla possibilità di inventare nuove strategie capaci di dar vita a luoghi relazionali in cui l'alterità non si oppone all'identità, ma la fonda e la costituisce come sua "intrusione" originaria.

P. Gregory, Roma, 05 Maggio 2015

         

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